
“La vittoria ha moltissimi padri, la sconfitta nessuno”
J.F. Kennedy
Da interista ho sofferto maledettamente. Ammetto di non essere un tifoso sfegatato, però mi piace guardare le partite importanti, quando ne ho tempo. Per la finale mi ero anche ritagliato il tempo dalla famiglia per poterla vedere comodamente, con la giusta elettricità pre-finale, poi Inter – Siviglia è cominciata.
Una cosa che non amo molto di chi fa l’allenatore ed in particolare di certi allenatori è la platealità di alcuni gesti. Non amo chi si mette a tu per tu con arbitro, collaboratori, avversari in panchina, avversari in campo, colleghi di staff, giocatori della propria squadra e soprattutto non amo il continuo sbracciare e sbraitare. Si, ammetto di aver sbracciato e sbraitato pure io, fino a quando non mi sono rivisto e risentito: triste.
Ecco, Antonio Conte era in campo fin troppo, fino a rendersi un bersaglio degli avversari ed un problema per la sua squadra. Rallentare il ritmo partita e distogliere l’attenzione dei giocatori dal campo per curarsi di ciò che succede in panchina credo sia una delle cose più sbagliate che possa fare un allenatore. La cosa rende la sconfitta con il Siviglia in finale ancora più amara. Adesso ammettiamolo pure: saranno sì e no l’1% gli allenatori che vantano un accesso alle finali delle più importanti manifestazioni sportive per il proprio sport e la gestione delle proprie emozioni, dello stress, delle aspettative, non credo sia semplice. Facile criticare Conte seduto davanti al pc, vero. Facile criticarlo dopo una sconfitta, vero. Tuttavia mi ha proprio colpito questo atteggiamento da “sbarbatello”, mi si passi il termine, da allenatore di provincia che arriva nel salotto buono per la prima volta. Ne hanno risentito un po’ tutti.

Lukaku per esempio è stato il deus ex machina di una squadra che quando gioca domina. La faccia di Lukaku durante la finale era un insieme di emozioni contrastanti, ma certamente non positive, né trasmettevano voglia o rabbia agonistica, dopo l’1-1 sivigliano. Qualcosa – forse la mancanza di un piano B condiviso a pieno? – ha giocato uno scherzo ad un gruppo che è comunque apparso al livello di una ottima squadra, con un ottimo allenatore, cosa che è e ha anche l’Inter. Queste emozioni hanno forse anche rallentato l’inizio dei cambi, che andavano fatti prima dell’inizio del quarto quarto di gara a mio avviso (Eriksen prima per un Gagliardini spento?).
Tutto questo per dire che, da allenatori, per quanto bravi, non dovremmo mai dimenticare che siamo parte del campo, ma non siamo in campo. Quando ho cominciato a stare zitto, addirittura quando non ero presente, ho visto le cose migliori della squadra che allenavo. Soprattutto ho visto la massima espressione del suo potenziale. Un leader di qualsiasi natura dovrebbe comprendere quanto importante sia non farsi sempre protagonista, ma lasciare che altri leader facciano la loro parte quando è il momento. La fiducia nei mezzi del proprio gruppo è un aspetto importantissimo. Maggiore sarà il numero di correzioni in corsa, minore la fiducia percepita.

Sto cercando da anni di imparare l’“assenza partecipata”, ovvero un modo di esserci, senza gravare sulle verifiche con ulteriori carichi di stress, permettendo a tutti di esprimersi con tranquillità. Il mio intervento dovrebbe calibrarsi nei momenti corretti: pause da fine tempo, pause di gioco e poco altro. Ci saranno settimane per rivedere cose buone ed errori di una verifica, perché non lasciare che gli atleti sperimentino quel momento in maniera piena, senza burattinai più o meno occulti?
Mi metto nei panni di Conte: ansia da prestazione, stress indotto dall’interno e dall’esterno, aspettative proprie e dei giocatori. No, credo che non ce la farei, non adesso quanto meno. Nel mio piccolo sento anche io tutte queste cose, come se la vittoria e la sconfitta di una partita fossero un esame sul mio operato e sulle mie competenze.
Ma in fin dei conti è davvero così?
Un allenatore può modellare persone?
Un giocatore o una squadra possono essere responsabili in toto di un risultato?
